La psicoterapia e lo spazio del Sé

  




"L'anima nasce vecchia e diventa giovane: ecco la commedia della vita.

Il corpo nasce giovane e diventa vecchio: ecco la tragedia della vita."

(Oscar Wilde)



Tom Bower afferma che la vita del bambino è costituita da una moltitudine di spazi che in quella dell'adulto non esistono. 

Egli verificò l'ipotesi di Piaget secondo cui per il bambino l'identità degli oggetti è creata dalla loro posizione o dal loro movimento. 

Se una sedia viene messa prima davanti a una libreria e poi spostata e messa di fronte a un muro, diventa una sedia diversa poiché occupa una nuova posizione. 

Per il bambino ci sono molti oggetti dove per l'adulto ce ne sono pochi. 

La frammentarietà dell'esistenza personale dei bambini risulta evidente anche dai loro dialoghi. Ciò che è vero sembra esserlo solo per quel momento. 

Questa verità sembra non avere alcun nesso con la situazione di alcuni minuti dopo.

"Fin verso i sette/otto anni i bambini non si preoccupano di avere un'opinione unica su un dato argomento. Certo non pensano la contraddizione, ma adottano successive credenze, che se confrontate, sarebbero contraddittorie." (Piaget)

Il processo di unificazione comincia con una temporalizzazione dell'esperienza. 

Il prima e il dopo permettono una costanza dell'oggetto e una riduzione della molteplicità dell'esperienza, che nella narrazione diventa sequenza di accadimenti e condensazione dell'esperienza percettiva. 

Il luogo, insieme al tempo, nella condizione analitica, permettono al terapeuta di superare la frammentazione e la discontinuità dell'esperienza nella relazione col paziente. 

Il corpo è il luogo di questa condensazione, nei suoi sistemi di afferenze e percezioni propriocettive, l'unità psico-fisiologica del terapeuta riduce l'esperienza a una forma di contatto col paziente, sempre più precisa nei luoghi e costante nel tempo. 

La storia crea un significato tra i misteri e gli eventi slegati, aiuta il paziente a costruire una realtà personale. Le storie sono "atti di significato" (Bruner). 

Questo tipo di narrazione è carente nei dialoghi con coloro il cui sviluppo è stato compromesso. 

Pierre Janet, che si occupò di moltissimi individui sulle cui vite i traumi avevano lasciato profonde cicatrici (nel complesso descrisse 591 pazienti, individuando in 257 di loro un'origine traumatica della psicopatologia), notò che queste persone non erano in grado di riunire adeguatamente le varie parti della loro esistenza. 

Il loro deficit principale, a suo modo di vedere, era un'incapacità di "sintesi personale".

"Essi mostrano una carenza di unità mentale." (Janet)

Inoltre, il modo di conversare dei suoi pazienti era simile a un resoconto.

"Vivono ogni giorno senza immagini del futuro o ricordi del passato, raccontando la stessa storia monotona, giorno dopo giorno." (Janet)

Il lavoro dello psicoterapeuta tende alla costruzione di una storia che potrebbe ricollocare gli eventi e metterli in sequenza. 

La sincronizzazione tra il tempo non-lineare del corpo e il tempo lineare della relazione e del dialogo potrebbero contribuire allo sviluppo degli aspetti terapeutici della relazione. 

La memoria lineare, della mente del cliente, potrebbe cominciare a confrontarsi con la memoria inconscia e non-lineare del suo corpo, in uno scambio proficuo nel quale, il cliente avrebbe l’opportunità di dare più spiegazioni alla sua storia.

Questa capacità è quella che Bruner individua in una certa età dell'evoluzione del bambino:

"Lo sviluppo di un pensiero narrativo e di uno paradigmatico." (Bruner)

I due differenti linguaggi (espressione del pensiero) sono diretti a due diversi orientamenti. 

L'utilizzazione cosciente che il terapeuta fa di queste due modalità di funzionamento gli permettono di utilizzare il pensiero narrativo nel linguaggio dell'adattamento e utilizzare il pensiero paradigmatico nel linguaggio del simbolismo corporeo. 

Nell'area dell'adattamento il terapeuta si pone in relazione e costruisce la sua immagine di fronte al paziente, quali sue parti sono viste e possono agire nella relazione. 

Gradualmente si delinea un'identità del terapeuta in relazione con quel paziente e con nessun altro. 

Nell'area del simbolismo, il pensiero non-lineare diventa la forma di linguaggio del Sè terapeutico, che nel terapeuta è legato a un'esperienza intima che ha del cliente. 

Nella vita quotidiana queste due sfere dell'esistenza sono unite, connesse e contenute nel corpo quindi, parlarne in termini di separatezza ha soltanto carattere esplicativo riguardo al setting terapeutico.

La terapia richiede il coordinamento di questi due ambiti e delle differenti forme di attività mentali che ne sono alla base. 

Questo coordinamento prende forme diverse in momenti diversi dell'esperienza terapeutica. 

In alcune circostanze la modalità di pensiero lineare sarà prevalente, in altre, nel caso per esempio della reverie (concetto di Wilfred Bion per indicare la sintonizzazione mentale-corporea tra madre e figlio) passa in primo piano il paradigmatico e associativo pensiero non-lineare del corpo. 

Le caratteristiche con cui ogni terapia diventa un'esperienza è influenzato dallo stato di questo coordinamento e dal modo in cui la fiducia che il paziente ha nella figura del terapeuta permette quest'esperienza.

La familiarità che il terapeuta ha con i suoi linguaggi (cognitivo e simbolico) e l'utilizzo congruo che ne può fare in seduta permettono al paziente di sviluppare un attaccamento sicuro. 

Lo spazio del Sè terapeutico che nasce dal linguaggio non-lineare e che si basa sulla relazione intima tra i due è molto più fragile dello spazio dell'adattamento, formato nella sequenza lineare dell'interazione cognitiva. 

A riguardo Jeremy Holmes afferma che:

"Lo spazio del Sè deve potersi realizzare attraverso attaccamenti sicuri che si sviluppano nei confronti delle persone che si prendono cura di lui, che hanno risposto in modo sensibile e adeguato alle richieste del soggetto. 

In tal modo si sviluppa un sentimento di fiducia e questo sentimento permette di utilizzare i simboli e di esercitare la funzione narrativa." 




Movimenti controtransferali e centralità dell'esperienza del dolore

  



"Ego non è padrone a casa sua"
(Sigmund Freud)


L'intenzione delle persone non è (in genere) la ricerca del dolore. 

Nell'esperienza del dolore si contatta una coscienza che è simile a quella della morte, cioè la limitazione della vita, per cui non è un'esperienza che si decide di fare o di non fare, il dolore è inflitto e come tale può essere sopportato e, in certe condizioni, accettato.

Nella parola greca che indica il termine evento, avvenimento, congiuntura, si fa riferimento semplicemente al significato di essere colpiti da qualcosa di esterno. Successivamente la parola assumerà la valenza negativa di sofferenza, disgrazia, sciagura

Nella nostra cultura il dolore è per eccellenza ciò che colpisce; non si sceglie ma giunge. 

L'accettazione di questa ineluttabilità è il primo lavoro che lo psicoterapeuta può fare sul proprio controtransfert (condizione emotiva connessa al contatto tra le dinamiche del cliente e le proprie).

La paura del dolore alimenta la resistenza e la difficoltà a capire la sofferenza del paziente, il timore che un dolore provato in passato possa tornare, chiude le porte alla percezione dell'elemento innovativo contenuto nel controtransfert. 

L'esperienza del dolore investe due aspetti del lavoro terapeutico: 

- il primo appartiene alla specificità di ogni singolo controtransfert che il terapeuta sviluppa nei confronti dei suoi pazienti e che ha una qualità nuova perché nasce dall'incontro di due storie (quella del paziente e quella del terapeuta); 

- il secondo riguarda la narrativa del terapeuta, che ogni giorno egli utilizza con i pazienti e che nasce dal modo in cui egli ha affrontato i conflitti della sua vita, come li ha risolti e il tempo in cui li ha pacificati.

Lavorare sul controtransfert permette che i due aspetti del dolore del terapeuta, quello attuale e quello storico, si possano incontrare per produrre una conoscenza nuova che si renda disponibile nella relazione di cura.       
 
La radicalità dell'esperienza del dolore è dovuta al fatto che essa dispone in una diversa circolarità l'esperienza e la conoscenza, in modo da far acquisire una visione e un modo del tutto diversi di considerare il mondo e l'accadere. 

Ogni conoscenza è un contenuto dell'esperienza e il dolore inaugura un'esperienza cruciale, poiché sottopone a una tensione che, quando non diventa distruzione, accresce la percezione. 

Il dolore, qualunque sia la sua origine ed in qualunque modo sia vissuto, interrompe il ritmo abituale dell'esistenza e produce una nuova coscienza. E' veicolo di conoscenza per immedesimazione e non per astrazione, evento che permette l'incontro e il dialogo:

"Il dolore è fatto personale, ma è anche evento cosmico: questo intreccio di singolare e di universale permette, all'esperienza del dolore, di farsi linguaggio." (Natoli)

Il dolore crea degli intransitabili confini, per cui si erge un muro di silenzio tra chi soffre e chi non soffre. 

Il patimento del terapeuta risparmia al paziente l'impotenza della consolazione e la vanità delle parole che pretendono di portare sollievo, senza aver conosciuto il dolore. 

Lo scenario intra-psichico del controtransfert diventa il luogo dove il conflitto precocemente pacificato del terapeuta viene risvegliato dalla vicinanza coi conflitti del paziente. 

La tregua che da tempo garantisce una precaria stabilità al corpo del terapeuta, vacilla sotto la pressione della realtà del dolore del paziente. 

E' qui il valore dell'esperienza controtransferale: il terapeuta può imparare dal paziente e dal suo dolore il modo di scartare l'inganno della precoce pacificazione dei conflitti e portarli ad una reale risoluzione. 

Primo da sciogliere tra tutti i conflitti, il non voler accettare se stesso e il proprio corpo per quello che sono, arrendersi all'oggettività del corpo, ai segni fisici della sua spazialità ed estensione, al suo cambiamento secondo una temporalità, evoluzione e decorso. 

Di questa oggettività partecipa il dolore e in tal caso sia ha a che fare sia con l'accesso di dolore, che con la sua sparizione. Si ha a che fare con il disturbo che caratterizza il dolore specifico e lo stato di malessere nel suo complesso. 

Questo insieme di segni, espressivo della sofferenza, si tramuta in sintomo di un'entità definita come malattia. In quest'aspetto il dolore, come percezione del proprio malessere e perciò delle ridotte possibilità di percepire e agire, si traduce nella malattia del terapeuta, quale espediente oggettivo-razionale per definire il dolore del paziente. 

Questo vale sia per una clinica del dolore in senso fisico sia per l'interiorizzazione del dolore fisico in sofferenza spirituale e morale. 

Si può parlare di somato-psicosi o di psico-somatosi a seconda di come si succedono i nessi di causalità, all'interno dell'oggettività del dolore che è del tutto corrispondente all'oggettività del corpo. 

Il rapporto con questa oggettività permette al terapeuta di dialogare con il suo corpo e contattare la sua realtà di base. 
       
La sintassi che permette questo dialogo, si delinea secondo i rapporti che il terapeuta stabilisce con le fasi successive dell'espressione corporea. Procedere nell'attualizzazione dei vissuti dolorosi, implica un disvelamento delle forme più verbalizzate del proprio linguaggio e i relativi mascheramenti espressivi. 

Il processo si configura come una generale semplificazione sia nel linguaggio che nei movimenti del corpo. L'abbandono degli schemi espressivi che garantivano l'immunità dai conflitti e dal relativo dolore, avviene in favore di un'aderenza sempre maggiore alla realtà del corpo che è invariabilmente anche la realtà della relazione terapeutica.

La scelta iniziale che il terapeuta si trova a fare, e che sarà sia il centro intorno al quale ci concentreranno i rapporti successivi col paziente sia il senso racchiuso nei gesti delle tecniche utilizzate nella terapia, è accettare o meno l'evento-paziente. La difesa da questo evento può assumere forme straordinarie. 

Si può sviluppare una cultura simbolica della relazione terapeutica, priva di contatto e affetto, di soddisfazione e invenzione spontanea. 

In questo caso si ripete un disturbo della relazione attraverso una tregua prematura dei conflitti, che se affrontati avrebbero potuto costituire l'elemento terapeutico, l'assunzione di norme aliene e la scelta di personalità verbalizzanti, capaci di un linguaggio insensibile, prive di affetto, rigide nella sintassi e senza significato. 

Il terapeuta può monitorare il proprio linguaggio per sapere se ha veramente accettato il paziente a cui sta parlando o ha deciso soltanto di tenerlo.  

Non difendersi dall'evento-paziente comporta l'assunzione di rischi e l'attraversamento di ansie personali che vengono risvegliate dal contatto col paziente. 

Essergli vicino, in un percorso di miglioramento dello stato di benessere, implica la mobilitazione di aree dell'esperienza del terapeuta che possano ricostruire scenari psichici nei quali il paziente possa riconoscersi, poter depositare i propri vissuti e trovare accoglienza. 

Il setting, che il terapeuta ripropone ogni volta al proprio paziente, prevede anche questo paesaggio immaginario, disegnato dal linguaggio che usa e dall’espressione delle sue esperienze. 

Le conformazioni principali di questo scenario meta-relazionale appartengono a quella sfera dell'esperienza del terapeuta che è in contatto con la sua paura corporea principale, che è poi la paura di tutti, cioè cadere.

"Da un punto di vista psicoanalitico le vertigini sono altrettanto importanti quanto l'ansia. L'apparato vestibolare è un organo la cui funzione si oppone all'isolamento e alla separazione delle distinte funzioni del corpo. 

C'è da aspettarsi che un tale organo sensorio, che riceve impressioni solo semiconsce e che conduce a una motilità di tipo istintuale e primitivo, debba essere molto sensibile alle emozioni,  e debba perciò svolgere una parte importante nelle nevrosi e nelle psicosi. 

Esso reagisce fortemente, e si può perfino prevedere che cambiamenti nella psiche si esprimano immediatamente nelle sensazioni vestibolari e nel tono. 

Cambiamenti organici nell'apparato vestibolare si rifletteranno sulle strutture psichiche: non solo influenzeranno il tono, il sistema vegetativo e gli atteggiamenti del corpo, ma debbono anche cambiare tutto il nostro apparato percettivo, e perfino la nostra coscienza." (Feldenkrais)






Aggressività o distruttività?



"Si odia con eccesso quando si odia un fratello"

(Jean Racine)


All’interno della famiglia e delle relazioni tra fratelli può comparire un tipo particolare di aggressività che Edmund Bergler rinonimò pseudo-aggressività.

La pseudo-aggressività riguarda manifestazioni quasi sempre improvvise e inadeguate di aggressività che si verificano nei soggetti il cui comportamento consueto è tutto il contrario del comportamento aggressivo.

Secondo questo autore l’aggressività sana è: 

1) suscitata da un ostacolo che bisogna superare;

2) si manifesta attraverso una esaltazione gioiosa della forza; 

3) si dispiega con un’intensità proporzionata all’ostacolo; 

4) va in cerca del successo e prova una viva soddisfazione nell’ottenerlo.

La pseudo-aggressività invece: 

1) non è suscitata da un ostacolo esterno, ma da una spinta profonda che emana dall’inconscio; 

2) si manifesta in un clima di tensione privo di gioia; 

3) si dispiega con un’intensità sproporzionata alla provocazione e quindi può essere pericolosa; 

4) non cerca il successo, ma lo scacco e la punizione perché hanno l’effetto di diminuire il senso di colpa.

La pseudo-aggressività è frequente nei soggetti inibiti spesso sotto forma di collere improvvise, suscitate da provocazioni minime che esplodono contro il primo venuto o contro un oggetto materiale.

Il divieto che la coscienza impone all’aggressività sfocia in una vera e propria forma di castrazione della personalità, per cui il soggetto, in questo caso uno dei fratelli risulta passivo, chiuso, ostinato nel silenzio o nella resistenza, arrabbiato e depresso nello stesso momento.

Il soggetto ne prova un sentimento di vergogna che rimuove così come ha fatto con l’aggressività e tenta di compensarlo con una formazione reattiva: prima di tutto una formazione reattiva che determina un comportamento docile, remissivo, autopunitivo; in secondo luogo una formazione reattiva contro la passività che si esprime in una condotta iper-dinamica chiaramente patologica.

Procedendo nella direzione contraria della formazione reattiva che attua il soggetto, cioè uno di due o più fratelli, possiamo affermare che lì dove osserviamo un individuo molto attivo, imprendibile nel tentare di entrarci in relazione, apparentemente molto creativo, sostanzialmente irrefrenabile e impermeabile al contatto umano, in realtà ci troviamo di fronte a un passivo, rabbioso-depresso, pseudo-aggressivo che si vergogna della sua incapacità di esprimere gioiosamente la sua aggressività sana e affrontare dignitosamente e con coraggio un ostacolo.

Alexander e Aichorn mettono la pseudo-aggressività alla base di alcune condotte delinquenziali, soprattutto giovanili, riconoscendo un grado di pericolosità personale e sociale a volte maggiore della normale aggressività, sicuramente più intensamente distruttiva riguardo i processi di sviluppo della psiche del soggetto e delle sue relazioni familiari e sociali.


Jacobson, Mahler, Erikson: le tre fasi dell'istinto


 

"L'istinto è il naso della mente" (Delphine Gay de Girardin)



Nello sviluppo della psiche c'è una fase iniziale indifferenziata nella quale Sé e oggetto non si distinguono l'uno dall'altro (simbiosi primaria onnipotente) e c'è un problema nell'attribuzione dell'origine della rappresentazione del Sé: 

L'investimento istintuale originario nella matrice Io-Es ancora indifferenziata, deve comportare un'originaria rappresentazione del Sé fatta di narcisismo puro, onnipotente, oppure la rappresentazione indifferenziata Sé-Oggetto precorre già un investimento separato dal Sé, parallelo a quello dell'oggetto, come la si può constatare nelle successive fasi di sviluppo? 

Edith Jacobson riservò il termine narcisismo primario alla fase di sviluppo precedente all'inizio della differenziazione dell'Io infantile e alla comparsa delle prime tracce di rappresentazioni del Sé e dell'oggetto. 

Questo narcisismo primario quindi prevalentemente teorico, astratto, consiste nell'investimento con cariche istintuali indifferenziate del Sé psicofisiologico primario, che la Jacobson raffigura nel puro alternarsi di stati di tensione crescente e di tensione decrescente

Man mano che la rappresentazione del Sé si differenzia da quella dell'oggetto essa viene investita con cariche libidiche che ora si definiscono narcisismo secondario, il quale si contrappone all'investimento oggettuale che si sviluppa di pari passo. 

L'opera della Jacobson ha fornito lo sfondo teorico alle osservazioni di Margaret Mahler consentendo la costruzione di un modello integrato della psiche infantile che collega le fasi successive della differenziazione Sé-Oggetto con funzioni essenziali dell'Io, come l'esame di realtà, l'organizzazione delle difese, lo sviluppo dell'identità, la formazione del carattere.

Quando la metapsicologia del Sé sembrava definitivamente inquadrata, Erik Erikson diede dell'identità dell'individuo una versione nuova. 

Nel libro Gioventù e crisi d'identità egli ha riassunto le sue idee in proposito, procedendo per approssimazione. 

In un primo momento egli tenta di definire autonomamente l'identità a partire dai dati dell'esperienza dando un posto preciso ai fattori culturali nella sua genesi.

"Il senso dell'identità è un sentimento soggettivo di coerenza e di continuità personale e culturale. La formazione dell'identità è un processo, prevalentemente inconscio, di riflessione e di osservazione che si svolge a tutti i livelli delle funzioni mentali. 

L'individuo giudica se stesso non solo in merito a questo lavoro, ma anche in base al giudizio di sé che percepisce negli altri. E' un processo di differenziazione progressiva che si inizia nel rapporto madre-bambino, ma che non termina mai, e che va incontro a una sua crisi tipica nell'adolescenza. 

Esso è inscindibile dalle trasformazioni che hanno luogo nella comunità cui l'individuo appartiene (vicende storiche, sociali, culturali, ecc.) per cui può essere concettualizzato come una specie di relatività psicologica. 

L'identità personale si fonda sulle percezioni di auto-identificazione, sulla continuità della propria esistenza nel tempo e nello spazio, e sulla possibilità di percepire che gli altri riconoscono la nostra identità. 

L'identità dell'Io è invece la consapevolezza della continuità nelle operazioni sintetizzanti dell'Io, cioè lo stile della propria individualità, che deve coincidere con l'identificazione e continuità del proprio significato per altre persone che contano nella comunità circostante".

Erikson vede l'adolescenza all'interno di una linea di continuità che fa capo all'infanzia. 

In questa prospettiva l'identità finale, come si concretizza al termine dell'adolescenza, viene vista come una configurazione che va evolvendosi, elaborando le varie fasi d'identificazione con individui del passato, comprendendone cioè tutte le identificazioni significative, ma anche alternandole in modo da farne un complesso unico e possibilmente coerente. 

L'influsso di Anna Freud a proposito della qualità e della forza dell'Io, unito agli interessi per l'antropologia culturale, spingono questo autore ad allontanarsi dall'approccio meccanicistico e fisicalistico della teoria psicoanalitica, che operava una distinzione molto netta tra mondo interno e mondo esterno sulla scorta del modello istintivista di Freud. 

Erikson invece, come osserva Ancona, è più interessato a sviluppare il classico concetto di zona libidica allargandola a quello di modo di funzionamento della stessa, dandole un significato di scambio attivo con l'ambiente fisico e sociale.

In Infanzia e società, Erikson propone appunto di spostare l'attenzione dalle pulsioni alle modalità che riguardano poi le attitudini di base e le virtù, cioè i compiti evolutivi che ogni età della vita deve assolvere per mediare la forza delle pulsioni e intessere i rapporti sociali.

E' importante notare, oltre una possibile normativa insita nel concetto di virtù che qui l'interesse si sposta dagli istinti al filtro e al modellamento che le varie culture operano nel bambino. 

Il termine cultura è assai più adeguato nella prospettiva di Erikson di quello di società.

"Mentre è assolutamente chiaro ciò che deve accadere per tenere un bambino in vita e ciò che non deve accadere per non metterlo in pericolo, un margine di arbitrarietà crescente con lo stesso sviluppo è lasciato a ciò che può accadergli. 

Le varie culture cioè fanno largo uso delle loro prerogative per decidere ciò che esse considerano come possibile e ritengono necessario."



Sugli schemi di attaccamento

  



"L'affinità è quando l'ammirazione e l'attaccamento 

si accrescono con la conoscenza

(Henri-Frédéric Amiel)


John Bowlby osservò tre tipi di situazione evolutiva: i primati nel loro ambiente naturale, i bambini in orfanotrofio e le interazioni madre-bambino.

Constatò che sia i piccoli dei primati sia i bambini crescono bene in un contesto con adulti coerenti e premurosi. 

Affascinato dal delicato equilibrio fra la formazione dei legami e l’esplorazione, Bowlby sviluppò i concetti di schema di attaccamentoricerca di vicinanza e base sicura

Il suo lavoro, che sottolinea l’importanza tanto del contatto fisico quanto della presenza di caretaker coerenti, provocò un cambiamento nella cura dei bambini istituzionalizzati. 

I bambini, che in precedenza erano stati accuditi da chiunque fosse disponibile, venivano ora assegnati a un caretaker ben definito per incoraggiare l’attaccamento. 

Le intuizioni di Bowlby hanno agito contro i pregiudizi culturali che provocavano la svalutazione dell’accudimento genitoriale.

Bowlby pensava che lo schema di attaccamento fosse la somma di innumerevoli esperienze con i caretaker che diventano previsioni automatiche, non coscienti dei comportamenti degli altri. 

Questi schemi vengono attivati nelle successive relazioni, ci portano a evitare o ricercare la vicinanza fisica e determinano anche la nostra capacità di utilizzare le relazioni per mantenere l’omeostasi fisiologica e regolare le nostre emozioni. 

Gli schemi di attaccamento sono particolarmente evidenti in situazioni di stress per il loro ruolo fondamentale nella regolazione affettiva. 

Questi schemi di memoria implicita sono vincolanti, cioè vengono attivati automaticamente prima ancora che noi possiamo diventare consapevoli delle persone con cui stiamo per interagire.

Gli schemi modellano la nostra esperienza cosciente degli altri attivando valutazioni rapide e automatiche centinaia di millesecondi prima che noi possiamo diventare consapevoli della nostra percezione degli altri. 

Decine di lavori ispirati alla teoria di Bowlby aprono uno spiraglio sulla memoria sociale implicita dell’attaccamento. I principali schemi di attaccamento deviati sono:

1) Evitante

I bambini con questo tipo di attaccamento hanno solitamente una madre distanziante; a loro volta i bambini ignorano la madre quando ricompare dopo essersi allontanata per un po' ("strange situation" di Mary Ainsworth). 

Questi bambini si limitano a lanciare uno sguardo, quando non evitano totalmente di guardarla. 

Nonostante la loro preoccupazione per l’estraneo, è come se questi bambini non si aspettassero che la madre potesse essere fonte di consolazione e pensino che sarebbe stato più facile regolare da soli le proprie emozioni. 

Questi bambini hanno imparato che la disattenzione o il ritiro della madre intensifica lo stress che per qualche motivo stanno sperimentando.

2) Ansioso-ambivalente

In questo schema di attaccamento i bambini cercano la vicinanza ma non sono facilmente consolabili e riprendono a giocare solo lentamente. 

Questi bambini hanno spesso una madre invischiata e non coerentemente disponibile e il disagio della madre sembra peggiorare il loro stress. 

Il loro lento ritorno al gioco e la continua dis-regolazione emotiva può riflettere l’interiorizzazione dell’ansia della madre e la mancanza di una base sicura. 

Questi bambini tendono a rimanere maggiormente aggrappati (strange situation) ed esplorano meno l’ambiente.

3) Disorganizzato

I bambini che presentano questo schema di attaccamento al momento della riunione con i genitori, dopo una breve e improvvisa separazione, mostrano comportamenti caotici e autolesivi: si dondolano, cadono, si picchiano e sono incapaci di calmarsi. 

Mostrano espressioni simili a quelle della trance, si immobilizzano e rimangono come congelati e mantengono posizioni scomode. 

E’ come se stessero cercando simultaneamente di avvicinarsi alla madre per ottenere sicurezza e di evitarla per mettersi in salvo. 

Il tumulto interno che ne risulta li dis-regola al punto tale che il loro adattamento, le loro capacità di coping del comportamento adulto e persino le capacità motorie sembrano crollare. 

Spesso questi bambini sono figli di madri alle prese con l’elaborazione di un lutto o di un trauma. 

Queste donne presentano svariati sintomi del disturbo post-traumatico e ricorrono a difese dissociative o primitive.


Appunti sul flusso di coscienza



"Ti amo non per chi sei ma per chi sono io quando sono con te

(Gabriel Carcìa Màrquez) 


"I pensieri legati tra loro, così come noi li avvertiamo in connessione sono ciò che intendiamo per Sé individuali" 
(William James, Psychology: briefer corse, 1892)

Qui il termine “pensieri” riferito al flusso di coscienza sintetizza il movimento di immagini, ricordi, idee, fantasie che vengono avvertiti in quei momenti in cui la nostra attenzione scivola via da ciò che ci circonda. 

Ciò che è fondamentale in questa esperienza è la sua forma non lineare che ricorda quella del gioco.

Il gioco poggia su un sentimento tipicamente caratterizzato da calore e intimità. Alla base del flusso di vita interiore, e mescolato a esso, c’è il sentimento del corpo, che ci accompagna di continuo. 

Spesso non ce ne accorgiamo neppure, sebbene esso sia in fluttuazione con lo stato del Sé, che a sua volta è influenzato dalle varie forme delle nostre relazioni interpersonali. 

Il tipo di Sé suggerito da James è vitale. Esso comporta cambiamenti e possibilità, libertà e varietà. Non è statico e non è una struttura come nel gergo psicoanalitico. 

E’ piuttosto un processo come lo intende Fritz Perls (gestalt psychology). 
Il Sé, nella sua continuità, non è mai uguale a se stesso. 

"La sua natura progressiva e sequenziale ricorda la forma della narrazione o, meglio ancora, la forma di un dialogo." William James identifica il flusso di coscienza con il me e questo fa sorgere un problema circa la mutevolezza dell’esperienza nel flusso di vita interiore.

Le fluttuazioni a carico del Sé come flusso di coscienza sono notevoli. Quando l’individuo è da solo, in un momento di riflessione, assorto, il flusso di coscienza è in primo piano. 

Molto più spesso, in realtà, esso fa da sottofondo ai dialoghi della vita quotidiana. Questo sottofondo costituisce una sorgente per il flusso colloquiale. 

La molteplicità dei rapporti colloquiali amplifica la varietà dei Sé. Come affermava James, noi siamo una comunità di vari Sé

E questo tutto sommato è un aspetto problematico; presuppone che l’esistenza personale sia potenzialmente frammentata, discontinua, multipla. 

E’ un’ipotesi che contraddice la comune credenza che la persona sia qualcosa di coeso e unitario.

Il problema è risolto in parte dall’Io. Il termine "Io" definisce una posizione, una prospettiva da cui viene diretta l’attenzione, dando forma in questo modo a una realtà individuale, che è in uno stato di incessante cambiamento. 

L’Io è una costante, ed è il mezzo attraverso il quale l’esistenza personale può essere unificata. In questo modo, l’individualità di ciascuno può essere concepita come una "varietà unificata".

Questa soluzione alla questione della potenziale molteplicità del Sé non elimina la difficoltà di equiparare il flusso di coscienza al me. Il flusso di coscienza non solo è variabile, può anche essere assente, come accennato prima. 

Questa esperienza può essere vissuta quando siamo terrorizzati. Siamo consapevoli della sorgente della minaccia, dell’affetto intenso e delle sensazioni corporee, come il battito cardiaco e la contrazione delle viscere. 

In situazioni di questo genere possiamo dire che siamo privi del Sé. Ma il me rimane. C’è ancora qualcosa che possiamo riconoscere come nostro, anche fosse soltanto la sgradevole sensazione di avere paura.

James affrontò la questione ipotizzando l’esistenza di diversi tipi di me: "Nel più ampio senso possibile, il me di un uomo è la somma totale di tutto ciò che egli può definire suo."

Ciò comprende non solo esperienze della vita interiore, ma anche tutti quegli aspetti della persona che appaiono al mondo esterno e che costituiscono la sua identità. Fatto ancora più importante il me ha una corporeità. 

E’ proprio tramite il corpo che i diversi aspetti del me vengono unificati.

James Mark Baldwin (1906) considerava il corpo capace di guardare in due direzioni contemporaneamente. 

Esso è esterno nella forma riconosciuta dagli altri; ma è anche il luogo dove viene avvertito lo svolgersi di una vita interiore, ciò che Wilfred Bion (1957) riconosceva come la capacità simultanea di essere contenitore e contenuto.

I due aspetti dell’essenza del me sono integrati, i due contenuti parziali, interno ed esterno, si integrano in un tutto più ampio di esperienza. Possiamo distinguere tre aspetti dell’individuo che chiamiamo Io, me, Sé

L’ultimo viene vissuto come interiore, anche se non completamente. Questo tipo di distinzione è naturalmente un’astrazione, dato che questi aspetti differenziabili dell’essenza individuale non possono essere disgiunti l’uno dall’altro. 

Tenendo inoltre a mente che, nonostante in questo schema il  sia distinto dal me, il flusso di coscienza è avvolto da un senso del me, dal suo essere avvertito come mio che è la più importante delle sue caratteristiche. 

Questo me che interessa la vita interiore è avvertito come uno strato profondo, un nucleo di esistenza personale. E’ "il Sé di tutti gli altri Sé" (James) e si accompagna a un sentimento che gli dà valore. 

Questo me è comunque un'esperienza fragile, che può subire dei danni. Chi ha subìto dei traumi, ha un ridotto senso del valore personale e dell’essenza del me che è al centro della propria persona, egli è un individuo che può arrivare a dire "non sono nessuno, in nessun luogo."