"Ego non è padrone a casa sua"
(Sigmund Freud)
L'intenzione delle persone non è (in genere) la ricerca del dolore.
Nell'esperienza del dolore si contatta una coscienza che è simile a quella della morte, cioè la limitazione della vita, per cui non è un'esperienza che si decide di fare o di non fare, il dolore è inflitto e come tale può essere sopportato e, in certe condizioni, accettato.
Nella parola greca che indica il termine evento, avvenimento, congiuntura, si fa riferimento semplicemente al significato di essere colpiti da qualcosa di esterno. Successivamente la parola assumerà la valenza negativa di sofferenza, disgrazia, sciagura.
Nella nostra cultura il dolore è per eccellenza ciò che colpisce; non si sceglie ma giunge.
L'accettazione di questa ineluttabilità è il primo lavoro che lo psicoterapeuta può fare sul proprio controtransfert (condizione emotiva connessa al contatto tra le dinamiche del cliente e le proprie).
La paura del dolore alimenta la resistenza e la difficoltà a capire la sofferenza del paziente, il timore che un dolore provato in passato possa tornare, chiude le porte alla percezione dell'elemento innovativo contenuto nel controtransfert.
L'esperienza del dolore investe due aspetti del lavoro terapeutico:
- il primo appartiene alla specificità di ogni singolo controtransfert che il terapeuta sviluppa nei confronti dei suoi pazienti e che ha una qualità nuova perché nasce dall'incontro di due storie (quella del paziente e quella del terapeuta);
- il secondo riguarda la narrativa del terapeuta, che ogni giorno egli utilizza con i pazienti e che nasce dal modo in cui egli ha affrontato i conflitti della sua vita, come li ha risolti e il tempo in cui li ha pacificati.
Lavorare sul controtransfert permette che i due aspetti del dolore del terapeuta, quello attuale e quello storico, si possano incontrare per produrre una conoscenza nuova che si renda disponibile nella relazione di cura.
La radicalità dell'esperienza del dolore è dovuta al fatto che essa dispone in una diversa circolarità l'esperienza e la conoscenza, in modo da far acquisire una visione e un modo del tutto diversi di considerare il mondo e l'accadere.
Ogni conoscenza è un contenuto dell'esperienza e il dolore inaugura un'esperienza cruciale, poiché sottopone a una tensione che, quando non diventa distruzione, accresce la percezione.
Il dolore, qualunque sia la sua origine ed in qualunque modo sia vissuto, interrompe il ritmo abituale dell'esistenza e produce una nuova coscienza. E' veicolo di conoscenza per immedesimazione e non per astrazione, evento che permette l'incontro e il dialogo:
"Il dolore è fatto personale, ma è anche evento cosmico: questo intreccio di singolare e di universale permette, all'esperienza del dolore, di farsi linguaggio." (Natoli)
Il dolore crea degli intransitabili confini, per cui si erge un muro di silenzio tra chi soffre e chi non soffre.
Il patimento del terapeuta risparmia al paziente l'impotenza della consolazione e la vanità delle parole che pretendono di portare sollievo, senza aver conosciuto il dolore.
Lo scenario intra-psichico del controtransfert diventa il luogo dove il conflitto precocemente pacificato del terapeuta viene risvegliato dalla vicinanza coi conflitti del paziente.
La tregua che da tempo garantisce una precaria stabilità al corpo del terapeuta, vacilla sotto la pressione della realtà del dolore del paziente.
E' qui il valore dell'esperienza controtransferale: il terapeuta può imparare dal paziente e dal suo dolore il modo di scartare l'inganno della precoce pacificazione dei conflitti e portarli ad una reale risoluzione.
Primo da sciogliere tra tutti i conflitti, il non voler accettare se stesso e il proprio corpo per quello che sono, arrendersi all'oggettività del corpo, ai segni fisici della sua spazialità ed estensione, al suo cambiamento secondo una temporalità, evoluzione e decorso.
Di questa oggettività partecipa il dolore e in tal caso sia ha a che fare sia con l'accesso di dolore, che con la sua sparizione. Si ha a che fare con il disturbo che caratterizza il dolore specifico e lo stato di malessere nel suo complesso.
Questo insieme di segni, espressivo della sofferenza, si tramuta in sintomo di un'entità definita come malattia. In quest'aspetto il dolore, come percezione del proprio malessere e perciò delle ridotte possibilità di percepire e agire, si traduce nella malattia del terapeuta, quale espediente oggettivo-razionale per definire il dolore del paziente.
Questo vale sia per una clinica del dolore in senso fisico sia per l'interiorizzazione del dolore fisico in sofferenza spirituale e morale.
Si può parlare di somato-psicosi o di psico-somatosi a seconda di come si succedono i nessi di causalità, all'interno dell'oggettività del dolore che è del tutto corrispondente all'oggettività del corpo.
Il rapporto con questa oggettività permette al terapeuta di dialogare con il suo corpo e contattare la sua realtà di base.
La sintassi che permette questo dialogo, si delinea secondo i rapporti che il terapeuta stabilisce con le fasi successive dell'espressione corporea. Procedere nell'attualizzazione dei vissuti dolorosi, implica un disvelamento delle forme più verbalizzate del proprio linguaggio e i relativi mascheramenti espressivi.
Il processo si configura come una generale semplificazione sia nel linguaggio che nei movimenti del corpo. L'abbandono degli schemi espressivi che garantivano l'immunità dai conflitti e dal relativo dolore, avviene in favore di un'aderenza sempre maggiore alla realtà del corpo che è invariabilmente anche la realtà della relazione terapeutica.
La scelta iniziale che il terapeuta si trova a fare, e che sarà sia il centro intorno al quale ci concentreranno i rapporti successivi col paziente sia il senso racchiuso nei gesti delle tecniche utilizzate nella terapia, è accettare o meno l'evento-paziente. La difesa da questo evento può assumere forme straordinarie.
Si può sviluppare una cultura simbolica della relazione terapeutica, priva di contatto e affetto, di soddisfazione e invenzione spontanea.
In questo caso si ripete un disturbo della relazione attraverso una tregua prematura dei conflitti, che se affrontati avrebbero potuto costituire l'elemento terapeutico, l'assunzione di norme aliene e la scelta di personalità verbalizzanti, capaci di un linguaggio insensibile, prive di affetto, rigide nella sintassi e senza significato.
Il terapeuta può monitorare il proprio linguaggio per sapere se ha veramente accettato il paziente a cui sta parlando o ha deciso soltanto di tenerlo.
Non difendersi dall'evento-paziente comporta l'assunzione di rischi e l'attraversamento di ansie personali che vengono risvegliate dal contatto col paziente.
Essergli vicino, in un percorso di miglioramento dello stato di benessere, implica la mobilitazione di aree dell'esperienza del terapeuta che possano ricostruire scenari psichici nei quali il paziente possa riconoscersi, poter depositare i propri vissuti e trovare accoglienza.
Il setting, che il terapeuta ripropone ogni volta al proprio paziente, prevede anche questo paesaggio immaginario, disegnato dal linguaggio che usa e dall’espressione delle sue esperienze.
Le conformazioni principali di questo scenario meta-relazionale appartengono a quella sfera dell'esperienza del terapeuta che è in contatto con la sua paura corporea principale, che è poi la paura di tutti, cioè cadere.
"Da un punto di vista psicoanalitico le vertigini sono altrettanto importanti quanto l'ansia. L'apparato vestibolare è un organo la cui funzione si oppone all'isolamento e alla separazione delle distinte funzioni del corpo.
C'è da aspettarsi che un tale organo sensorio, che riceve impressioni solo semiconsce e che conduce a una motilità di tipo istintuale e primitivo, debba essere molto sensibile alle emozioni, e debba perciò svolgere una parte importante nelle nevrosi e nelle psicosi.
Esso reagisce fortemente, e si può perfino prevedere che cambiamenti nella psiche si esprimano immediatamente nelle sensazioni vestibolari e nel tono.
Cambiamenti organici nell'apparato vestibolare si rifletteranno sulle strutture psichiche: non solo influenzeranno il tono, il sistema vegetativo e gli atteggiamenti del corpo, ma debbono anche cambiare tutto il nostro apparato percettivo, e perfino la nostra coscienza." (Feldenkrais)