Terapia in sottrazione

   






"Scavando a fondo nella personalità ci imbattiamo in uno sconosciuto"

(Michelangelo Buonarroti)



La personalità è una formazione adattiva plasmata dall'evitamento dell'angoscia.
La sua forma è stratificata e il primo tipo di personalità è di natura dipendente. 
La dipendenza, in seguito alla naturale frustrazione dei legami, si sviluppa in una personalità paranoica. 

La paranoia, per esigenze di socialità e intimità nel corso dello sviluppo psico-fisico, si struttura e si stabilizza nelle varie forme adulte della personalità narcisistica.

Una personalità completamente sviluppata, matura, stratificata e sufficientemente adattiva è una personalità che declina in modo soggettivo i tanti aspetti del narcisismo, convergendone i vissuti egosintonici verso il raggiungimento di obiettivi congrui.

Ma il narcisismo ha aspetti egodistonici e la giusta calibratura delle potenzialità del soggetto narcisista si ottiene sottoponendosi a una psicoterapia.

Il lavoro psicoterapeutico tenta un percorso a ritroso: risalire alla personalità dipendente per riuscire a superare anche quest’ultima forma di difesa e affrontare la negazione delle realtà spaventose e dolorose che hanno precocemente terrorizzato l’individuo.

I passaggi che mettono in comunicazione i tre tipi di personalità sono le forme compensate: il borderline, che è la forma compensata del narcisista, costituisce la porta di accesso alla personalità paranoica. 

La schizotipia è la porta che consente una comunicazione con la paranoia, da un lato con il borderline narcisistico e dall’altro lato con la dipendenza nella sua forma compensata, cioè l’evitante con tratti ossessivi.

La psicoterapia procede dalle sintonie sadiche del narcisista, passando per le sofferenze del borderline, verso l’egoconfuso dello schizotipico, continuando nell’egodistonico dell’evitante-ossessivo, approdando alla realtà dipendente del soggetto bisognoso di legami, sostegno e rassicurazioni.

Schematicamente: il narcisista puro, così come l’istrionico o l’antisociale, debbono poter transitare attraverso gli aspetti borderline nella dimensione schizotipica sottostante. 

Da qui esplorare la realtà paranoica che soggiace al narcisismo e di seguito accedere ai propri bisogni di dipendenza attraverso i contenuti evitanti e ossessivi che ne costituiscono la forma compensata.

Terminato questo percorso di discesa negli strati più profondi e più antichi della personalità, ci si trova a un passo da quelle paure terrificanti e dai dolori mortiferi che hanno prodotto le difese e gli atteggiamenti di negazione.

A questo punto si esce dal territorio della volontarietà e delle regole conosciute. 

Questo è il luogo e il tempo dell’imprevisto e dell’insondato, non servono passi ulteriori, è necessario abbandonarsi alla sconosciuta essenza che esprime la vera natura dell’individuo.


Quanto riesci a farti male?

  




"La mia solitudine è un desiderio masochistico"

(Paul Auster)



Adulti che s’impegnano ripetutamente in atti di autolesionismo provengono quasi sempre da un’infanzia piena di abusi, mancanza di attenzioni, prese in giro crudeli e umiliazioni da parte dei caretaker (Mazza, Reynolds).

Questa correlazione ha portato molti clinici a considerare il significato dell’autolesionismo come un continuo coinvolgimento psichico con genitori distruttivi.

Esperienze di abuso sono tenute in vita nelle reti della memoria sociale implicita e fanno intrusione nella consapevolezza cosciente quando sono innescate da critica, rifiuto o perdita.

Data la correlazione fra esperienze negative di attaccamento e autolesionismo, il suicidio è stato visto come un ultimo atto di compiacenza del figlio nei confronti del genitore sadico: il figlio sente che il genitore desidera la sua morte e cerca di soddisfare questo desiderio (Green).

Ripetuti tentativi di suicidio sono rinforzati non intenzionalmente dalla scarsa risposta di personale sanitario, famiglia e amici (Schwartz). 

Questa forma di attenzione diventa un mezzo di regolazione affettiva simile ai richiami dei giovani primati, i cui livelli di endorfine calano in assenza della madre per poi risalire quando la madre ritorna e calma i suoi piccoli. 

La comparsa dei sanitari sembra agire allo stesso modo.

Anche gli oppiodi endogeni sembrano implicati in gravi casi di autolesionismo e suicidio (Van der Kolk).

In caso di ferita, le endorfine procurano l’analgesia per il dolore che ci permette di continuare a combattere o scappare (Pitman).

Il circuito dell’endorfina, in origine usato per affrontare il dolore, è stato adattato dalle reti di attaccamento e di connessione, che si sono sviluppate successivamente, per rinforzare con stati emozionali positivi il comportamento affiliativo. 

Il sistema dell’endorfina e il suo ruolo nella modulazione dell’attaccamento e della vicinanza, può essere centrale nella patologia borderline e può spiegare il fallimento del trattamento farmacologico con antidepressivi, il cui bersaglio è costituito dai sistemi neuro-trasmettitori serotoninergici e dopaminergici (Corrigan).

Gli effetti analgesici di queste sostanze morfinosimili possono spiegare anche i resoconti di riduzione dell’ansia e il senso di calma successivi alla procurata ferita o bruciatura.

La ricerca ha dimostrato che l’autolesionismo diminuisce, o cessa completamente, quando viene dato ai pazienti un farmaco per bloccare gli effetti calmanti e di rinforzo degli oppioidi endogeni (Pitman).

Il loro rilascio, in risposta alla paura e allo stress, può aiutare la maggior parte delle persone a modulare gli stati emozionali e incrementare le capacità di coping e di problem solving (Fanselow, Carroll).

Questo sistema può non venir attivato in condizioni normali nelle persone borderline, e l’autolesionismo potrebbe essere un modo per superare una soglia più alta di rilascio dell’endorfina. 

Quest’idea è sostenuta dal fatto che, chi riferisce analgesia durante un’automutilazione, mostra anche minore sensibilità al dolore, persino in stati di calma (Bohus).



Precisazioni su un carattere egoriferito

  



"Il carattere delle persone non si rivela mai 
così chiaramente come nel gioco"
(Lev Tolstoj)


Le tipologie caratteriali delle persone sono psicologicamente differenziate dalla qualità della struttura dell’Io cioè dal loro atteggiamento verso la realtà. 

Le persone possono essere differenziate rispetto al tipo di destino che riservano inconsciamente alla loro funzione genitale.

I caratteri orale e masochista sono classificati come tipi pregenitali: il loro contatto con la genitalità è insicuro, il loro atteggiamento verso la realtà è infantile o puerile. 

Entrambi sono strutture prive di armatura caratteriale. 

Si possono raggruppare in un’unica categoria tutte quelle forme caratteriali basate sulla genitalità, più o meno corazzate o più o meno sicure nel loro rapporto con la realtà.

Più la struttura caratteriale è nevrotica più si manifesterà come rigida a livello psicologico e somatico. 
Per questa ragione è definito rigido il carattere fallico-narcisistico.

Questa categoria comprende anche il carattere isterico, cioè la forma che il disturbo assume più spesso nelle donne. 

E’ comunque opportuno capire perché si fa una distinzione tra i tipi di struttura rigida maschile e femminile nel carattere narcisistico, mentre non si fa la stessa distinzione nella struttura del carattere masochista o orale.

Il problema dell’oralità e il problema del masochismo non differiscono nei due sessi perché si tratta di strutture pregenitali, mentre il problema genitale è differente per il maschio o la femmina.

Il disturbo fondamentale causato dalla rigidità colpisce in modo simile la funzione nei due sessi, ma il modello manifesto di comportamento sarà diverso a seconda del sesso.

"La formulazione del carattere fallico-narcisistico si è resa necessaria per raggruppare quelle forme caratteriali che stanno fra la nevrosi ossessiva e l’isteria" (Reich)

L’isteria non è un tipo caratteriale ma un sintomo. 

Mentre il sintomo è generalmente associato al carattere, in questo caso non è necessariamente così. La paralisi isterica si riscontra anche negli uomini. 

La formulazione del sintomo dipende da condizioni speciali mentre le dinamiche della struttura caratteriale sono fenomeni persistenti.

Le distinzioni tra il carattere coatto, il carattere isterico e il carattere fallico-narcisistico si basano su i tratti di personalità e non sulle dinamiche dei processi energetici coinvolti.

"Mentre il carattere coatto è prevalentemente inibito, contegnoso, depressivo, e mentre il carattere isterico è nervoso, agile, apprensivo, incostante, il tipico carattere fallico-narcisistico invece si presenta sicuro di sé, arrogante, elastico, vigoroso, a volte imponente" (Reich)

L’esperienza clinica di Alexander Lowen ha mostrato che questi tratti non sono così nettamente circoscritti. 

L’arroganza è spesso il marchio di individui con forti tratti coatti; elasticità e agilità possono essere confuse.

Questa confusione appare evidente nell’osservazione di Reich quando parla del carattere fallico-narcisistico: 

"L’espressione facciale rivela frequentemente durezza e lineamenti prettamente maschili, ma anche spesso, malgrado l’habitus atletico, lineamenti femminili, da fanciulla"

Reich e altri analisti usarono la definizione carattere isterico per descrivere i tipi caratteriali sia maschili che femminili. 

Lowen preferì limitare il carattere isterico alla struttura femminile per la semplice ragione che la descrizione del carattere isterico maschile assomiglia al tipo di struttura passivo-femminile, che è un tipo misto di personalità più vicino al masochismo.

Il tipo passivo-femminile può essere considerato una delle suddivisioni interne del problema generale del masochismo, quello che Freud chiamò il tipo femminile di masochismo. 

Il carattere fallico-narcisistico descrive una struttura della personalità che è fondata nella realtà e ancorata nella genitalità per mezzo di difese dell’Io che sono invece assenti nelle strutture pregenitali.


Delirium & Claustrum

  




"Il delirio è la teoria di uno solo, la teoria è il delirio di molti"

(Francois Roustang)


La personalità umana non è mai unificata completamente ma è sempre non integrata e continuamente lacerata da processi di scissione. 

- Come si forma il sistema delirante?

- Come possono alcune parti della personalità vivere in un mondo delirante, che qualcuno ha chiamato il nessun luogo?

- Quali sono i fattori che determinano l’accesso alla coscienza dello stato mentale di tali parti deliranti?

Il sistema delirante presenta delle analogie con la costruzione dell’immagine del mondo nel senso di Money-Kyrle, qualcosa che viene eretto a poco a poco attraverso l’apprendere dall’esperienza, nel senso di Bion, ed è fabbricato a poco a poco parallelamente alla costruzione del mondo della realtà psichica.

Ma, proprio come questo viene costruito attraverso un processo di formazione simbolica riuscito attraverso l’introiezione di simboli ricevuti, il sistema delirante è fabbricato per mezzo di un processo di formazione di simboli che ha fallito, quello che Bion ha chiamato elementi beta con tracce di Io e Super-Io, che sono le macerie della funzione alfa rovesciata.

In risposta al terzo quesito sull’accesso alla coscienza di materiale delirante, bisogna chiarire che il termine coscienza è utilizzato nel senso di organo per la percezione di qualità psichiche (Freud), e perciò di attenzione (Bion) oppure di percezione di fenomeni (Platone).

Dal momento che la frammentazione del Sé è un attributo universale dell’apparato mentale, l’organo dell’attenzione è altamente valutato e conteso dalle varie parti del Sé a causa del suo diretto accesso alla motilità (Freud), sebbene non detenga in alcun modo il monopolio al riguardo.

Come accade che una parte o parti della personalità arrivino ad abitare in questo mondo del nessun luogo

Dobbiamo dedicare attenzione alla quarta area della realtà psichica, cioè l’interno degli oggetti interni, il mondo claustrofobico degli stati psicotici borderline.

L’ingresso nell’identificazione proiettiva è un fenomeno onnipresente nella prima infanzia, stabilitosi soprattutto durante i conflitti intorno ai processi escretori e aggravato dalle fantasie di attività masturbatorie intrusive, specie nella masturbazione anale.

Mentre il perseverare di una parte infantile che vive in uno stato d’identificazione proiettiva con un oggetto interno, di solito la madre e di solito a livello parziale, fa soprattutto emergere solo sintomi claustrofobici o agorafobici e tendenze maniacali o depressive, quando tale parte nascosta della personalità abbia guadagnato il controllo dell’organo della coscienza, avvengono dei marcati cambiamenti generali.

Prima di tutto l’esperienza del mondo esterno diventa dominata dall’atmosfera claustrofobica, il che significa che la persona, in qualunque situazione si trovi, si sente intrappolata. 

Ovunque c’è un’atmosfera di catastrofe imminente e porte chiuse (Sartre).

In secondo luogo, in risposta a questa sensazione sospesa di catastrofe imminente, l’immagine del mondo diventa compartimentalizzata e stratificata. 

I compartimenti, che hanno un forte connotato filogenetico o storico, si avvicinano nel loro significato alla suddivisione in Inferno, Purgatorio e Paradiso: nel retto, nei genitali o all’interno del seno o testa della madre primitiva.

Ogni organizzazione è vista come stratificata, gerarchica e perciò, in un certo senso, politica, sia che si tratti della famiglia, famiglia estesa, posto di lavoro, o che sia socialmente concreta come un’istituzione oppure astratta come una classe o un’occupazione.

"La qualità claustrofobica della mente, generando irrequietezza, spinge a cambiare area geografica e mobilita l’ambizione a salire una qualche scala sociale, esistente o meno, verso un’immaginaria salvezza verso l’alto." (Meltzer)




Elementi plastici nella genesi della parola e le dinamiche del Sè

  




"Udir con gli occhi è finezza d'amore"
(William Shakespeare)



Il silenzio e il contatto, il non verbale e la coscienza.

"Il Sè è il confine di un contatto e la formazione continua di rapporti tra figura e sfondo" (Hefferline)

Se togliamo alla parola il suo potere evocativo e il suo carattere fluido, facciamo quello fa il verbalizzatore, che utilizza la parola come struttura e oggetto di identificazione. 

"Egli è ciò che dice, non potendo dire ciò che egli è" (Perls) 

In qualsiasi gruppo di persone l'identificazione del porta-parola con ciò che dice è un segnale di un discorso incompiuto sub-vocale del gruppo: 

"Il metodo universalmente usato per proteggersi dalla disgrazia annunciata è quello di sopprimere lo stesso annunciatore" (Levy-Bruhl)

Nella maggioranza dei casi nei quali il porta-parola rimane l'enunciatore del discorso sub-vocale del gruppo, la sua figura è vicina a quella del poeta: articola il processo intra-psichico individuale con il processo inter-soggettivo, dà voce a un'entità circolante e sfida il pericolo di arrivare alla tregua precoce del conflitto individuale e gruppale, per scioglierla. 

"Il porta-parola è colui che nel gruppo, a un determinato momento, dice qualcosa, enuncia qualcosa e questo qualcosa è il segno di un processo gruppale che fino a quel momento è rimasto latente o implicito, come nascosto nella totalità del gruppo. 
Come segno, ciò che denuncia il porta-parola va decodificato, ossia va spogliato del suo aspetto implicito. In questo modo viene decodificato dal gruppo ciò che segnala il significato di questo aspetto. 
Il porta-parola non ha coscienza di enunciare qualcosa della significazione gruppale che ha luogo in quel momento, ma solo di enunciare o di fare qualcosa che vive come proprio" (Pichon-Rivière) 

La parola diviene il contenitore dell'esperienza, sostituendo la pelle nelle sue funzioni di confine e contatto. 

L'esperienza si attua sul confine di contatto, come afferma Goodman e, nel gruppo, ma anche nell'individuo, l'identità (dal latino identitate, da idemproprio quello stesso; uguaglianza completa e assoluta), ha esperienza sul suo confine che è la parola. 

Nella concezione di porta-parola di Piera Aulagnier, l'identità è devoluta al discorso della madre nella strutturazione della psiche del bambino. 

Per un'uguaglianza completa e assoluta dell'esperienza, la parola discorsiva della madre accompagna, commenta e anticipa le attività e i supposti pensieri del figlio. 

Silenzio, da latino silentium, silére, tacere, di origine indoeuropea. 

Tacere, di etimologia incerta; tacito, che tace, mantiene il silenzio, che non è espresso apertamente ma si può facilmente intuireaspettare tacitamente. 

Nel vissuto che la nostra cultura ha del silenzio c'è una condizione di attesa e rivelazione. 

Attesa che qualcosa si riveli, in un silenzio che è ascolto e nel quale emerge la possibilità di un'intuizione, di una nuova comprensione dell'esperienza. 

Questa comprensione ha di nuovo l'identità tra l'esperienza e l'esperiente, senza nessun bisogno di ricorrere ad una comprensione successiva che utilizzi la riflessione. 

Come nel silenzio anche nel racconto efficace il gruppo viene narrato a se stesso attraverso un linguaggio che Bion chiama dell'effettività e che ha la stessa immediatezza e forza dell'azione. 

Il luogo di contatto e comunicazione che la parola incarna nel dialogo collettivo, diventa il luogo dell'identità di gruppo e la forma parlante dei suoi bisogni, messa in evidenza su uno sfondo confuso, ed esterno, di verbalizzazioni. 

Nelle situazioni di contatto il Sé è la volontà che forma l'interesse nel campo delle interazioni, il Sé è il processo dell'individuazione nel campo della situazione di contatto. 

Il senso di questo processo formativo, cioè  il rapporto dinamico tra interesse e campo (Perls questo rapporto lo indica con figura/sfondo) è l'identità: sentire che nella situazione di contatto, la situazione incompiuta tende a completarsi. 

Il Sé esiste non come un'istituzione fissa ma come un adattamento a problemi e situazioni intense e difficili (esperienza incompiuta o conflitto precocemente sedato). 

Quando queste situazioni e problemi si avvicinano ad un compimento o a soluzione (dal latino solutus, sciolto; liberazione, dissolvimento) il Sé diminuisce.     







         

Sulla materia onirica

  




"L'uomo è un genio quando sogna"
(Akira Kurosawa)



Sigmund Freud volle conoscere a fondo la natura e la materia costitutiva dei sogni e la sua curiosità diede scandalo. 

Cominciò dal particolare per arrivare a una visione generale, rivoluzionaria e dettagliatamente clinica dell'interpretazione dei sogni.

Per Freud il linguaggio onirico è il segnale di pressioni inconsce che cercano di risalire alla coscienza. 

Tali pressioni istintuali possono però realizzarsi solo in modo mascherato dato che si tratta di desideri proibiti non ammessi alla coscienza, rappresentabili solo in modo allucinatorio. 

L’interpretazione deve rivelare proprio quest’aspetto clandestino e latente.

Il problema dello stimolo organico come fonte onirica fu ripreso da Freud varie volte nella sua opera fondamentale sul sogno.

Già nel 1° capitolo ricorda come questa fosse l’idea più diffusa tra gli studiosi a lui contemporanei (Wundt, Muller):

"Se diamo per accettato che l’interno del corpo può dar luogo agli stimoli del sogno in condizioni patologiche e se ammettiamo che la psiche, estraniata dal mondo esterno durante il sonno, può rivolgere all’interno dell’organismo un’attenzione maggiore, risulta ovvio ammettere che gli organi non hanno bisogno d’ammalarsi per dare origine a eccitamenti che, giunti alla psiche dormiente, si trasformeranno poi, in un modo qualsiasi, in immagini, oniriche. Questa è la teoria sull’origine del sogno prediletta da tutti gli autori medici." 
(Freud S., L’interpretazione dei sogni, 1899)

Nello stesso capitolo aveva già ricordato il pensiero di Tissiè, che aveva affermato che gli organo malati conferiscono al contenuto onirico un’impronta caratteristica (i malati di cuore ad esempio, fanno sogni brevi, con morti improvvise e carichi di angoscia, i tubercolosi invece riportano sogni di soffocamento, di mischia o di fuga).

Anche Schopenauer aveva d’altronde affermato che: 

"Di notte, cessato l’effetto assordante delle impressioni diurne, quelle che emergono dall’interno dell’organismo riescono ad attirare su di sé l’attenzione della psiche che trasformerà gli stimoli in figure che occupano lo spazio e il tempo, che si muovono sul filo conduttore della causalità."

Freud torna sull’argomento nel 5° capitolo, dove distingue tre tipi di fonti di stimolo somatiche: gli stimoli sensoriali oggettivi, provenienti da oggetti interni, gli stati di eccitamento interno degli organi di senso e quelli somatici provenienti dall’interno del corpo.

Ribadendo la diffusa accettazione di quest’impostazione, Freud comincia però a metterla in discussione, almeno come unica teoria capace di spiegare le origini del sogno. 

Cita così gli studi di alcuni autori (Culkins e Burdach) che affermano che nello stato di sonno esiste non tanto un’incapacità a interpretare gli stimoli sensoriali, quanto una mancanza di interesse per essi.

"Niente di organico è senza senso, niente di psichico è senza corpo.
(Von Weizsacker)

Seguendo invece l’opinione corrente, Scherner aveva cercato d’individuare le attività psichiche che fanno sorgere, dagli stimoli somatici, le variopinte immagini oniriche. 

Nella libera attività di fantasia sciolta dai legami diurni, il lavoro onirico tende, secondo Scherner, a rappresentare simbolicamente la natura dell’organo da cui parte lo stimolo e il tipo di stimolo.

Ne risulta così una specie di libro dei sogni, una guida all’interpretazione, per il cui mezzo è possibile dedurre dalle immagini oniriche sensazioni corporee, stati di organi e tipi di eccitamento.

Freud, pur accettando la fonte somatica del sogno, esprime la sua preoccupazione che il campo in cui si debba attingere l’interpretazione venga ristretto in un ambito troppo particolare, che tra l’altro, gli sembra precludere il suo tentativo di evidenziare la funzione fondamentale del sogno come espressione di un desiderio rimosso, per questo scrive:

"Resta da trovare, nell’ambito della nostra teoria, una sistemazione a quei fatti sui quali si basa la teoria corrente degli stimoli fisici. 
Gli eccitamenti corporei diventano anch’essi importanti nel sogno, in quanto sono attuali, e vengono congiunti con le altre attualità psichiche per fornire materiale per la creazione del sogno. 
In altre parole, durante il sonno gli stimoli vengono elaborati in un appagamento di desiderio, le altre componenti del quale sono date dai residui diurni psichici a noi noti. 
L’essenza del sogno non risulta alterata se alle fonti psichiche si aggiunge materiale somatico; esso rimane un appagamento di desiderio, indipendentemente dall’espressione che ad esso conferisce il materiale attuale." (Freud)

Abbandono o dominio e costi psichici

  




"La psicoterapia ha a che fare con due persone 

che giocano insieme"

(Carl G. Jung)



Una delle caratteristiche principali dello sviluppo umano è la lunghezza del periodo di immaturità comportamentale del piccolo. Si suppone che il decennale sviluppo dell'organismo esponga il soggetto alla formazione di nevrosi caratteriali.

Per molti anni il bambino non potrà che considerare se stesso debole e gli adulti potenti. 

Una caratteristica dell’immaturità emotiva in età adulta è proprio il considerarsi relativamente debole nei confronti di qualcosa relativamente più forte.

Se una persona si ritiene debole e indifesa rispetto agli altri può reagire in due maniere opposte. 

Può attaccarsi a loro in quanto capaci di concedergli aiuto e protezione o evitarli in quanto potenziali minacce di sopraffazione e restrizione alla libertà personale.

Di solito il bambino mostra entrambi i comportamenti.

Nella situazione transferale nel corso di una psicoterapia questi atteggiamenti sono riprodotti fedelmente e possiamo vederli in tutti i pazienti, sebbene di norma è l’uno o l’altro a predominare.

Lo psicoterapeuta esperto sa che esistono due tipi estremi di paziente che gli procurano difficoltà. 

C’è il tipo che fa ogni sforzo per compiacerlo e avvicinarglisi, gli si attacca disperatamente e pare intensamente interessato alla terapia.

L’altro cerca di tenerlo distante, evita i rapporti personali e si rivela indifferente a qualsiasi sforzo terapeutico.

Il primo si comporta come se il terapeuta fosse sempre sull’orlo di abbandonarlo, l’altro come se il terapeuta fosse una continua minaccia alla sua esistenza indipendente.

Il primo atteggiamento è caratteristico delle personalità più estroverse, il secondo di quelle introverse.

Entrambi sono atteggiamenti essenzialmente negativi, basati su due diversi tipi di paura. L’atteggiamento più estroverso può essere visto come depressivo, quello più introverso come schizoide.

La paura di essere abbandonato appartiene agli estroversi, isterici, ciclotimici, maniaco-depressivi.

La paura di essere dominato appartiene agli introversi, ossessivi-schizoidi, agli schizofrenici.

Il soggetto schizoide evita accuratamente ogni rapporto di carattere personale, ha un’aria distaccata e dà l’impressione di non avere bisogno degli altri. 

Sia nel dare che nel ricevere mostra di avere problemi dato che deve difendersi dalla possibilità che si instauri un legame. Nel caso sia fobico, lo schizoide tende alla claustrofobia.

Fairbairn afferma che questi tipi umani siano incapaci di dimostrare affetto perché sono arrivati a credere che il loro tipo di amore sia pericoloso o funesto per gli altri.

I valori del soggetto schizoide sono ammucchiati tutti nel suo mondo interiore e ciò gli fa sottovalutare l’importanza degli altri e la loro capacità di essere dei buoni contenitori emotivi.

Per questo lo schizoide fa una pessima prima impressione: trovarsi di fronte a qualcuno a cui non interessa fare buona impressione e essere apprezzato è un’esperienza altamente frustrante.

La paura di essere abbandonato porta invece il paziente di tipo depressivo ad attaccarsi a qualunque costo. 

Egli teme di rimanere solo e quindi tenderà a farsi travolgere da situazioni emotive riguardanti altri e a identificarsi troppo con esse.

La sua difficoltà principale è mostrare aggressività nei riguardi del prossimo che invece dev’essere sempre placato perché non lo abbandoni.

Gli altri sono sopravvalutati e il pericolo è che il soggetto finisca per considerarsi insignificante.

Dato che gli altri sono sopravvalutati il paziente tende a dare una prima impressione gradevole e se è fobico soffrirà molto probabilmente di agorafobia perché teme maggiormente di essere lasciato solo in uno spazio vuoto.

A causa del desiderio ansioso del paziente di fargli piacere, il terapeuta può facilmente sopravvalutare i suoi progressi, ma sarà lo stesso paziente a resistere ai progressi del trattamento per prolungarlo all’infinito.

Il pericolo principale del paziente depressivo è quello di perdersi in quanto personalità, perché la sua dipendenza lo porta a una iper-identificazione con gli altri.

In questo caso il terapeuta dovrà fare attenzione alle forze seduttive che governano il campo della terapia, mentre nel caso del paziente schizoide dovrà gestire le forze aggressive controtransferali, reattive alla paranoia del paziente.