"L'inconscio non è solo buio ma anche luce,
non è solo bestiale, demoniaco ma è anche sovrumano,
spirituale e nel senso classico del termine, divino"
(Carl G. Jung)
Le profondità abissali e le vette vertiginose che l'inconscio incarna sono lo splendido e terrificante paesaggio che attraversiamo ogni giorno.
La natura divina dell'inconscio, come afferma Jung, ci permette di rileggere il passato in una visione psicologica.
La natura divina dell'inconscio, come afferma Jung, ci permette di rileggere il passato in una visione psicologica.
Il termine nefes, tradotto dai latini come anima, è una parola che indica l’indigenza umana e l’ordine dei suoi bisogni per cui l’uomo non ha una nefes, ma è nefes.
Isaia, con la parola nefes, allude alla gola che come organo della nutrizione attraverso cui l’uomo si sazia è fra gli organi corporei il più idoneo a esprimere l’indigenza e il bisogno: "Poiché saziò la nefes assetata / e la nefes affamata ricolmò di beni."
Altrove nefes sta a indicare la parte esterna della gola: "Legarono in ceppi i suoi piedi / in catene venne la sua nefes." Qui è evidente che si tratta del collo e non dell’anima.
Dal significato letterale si passa a quello metaforico per cui nefes significa desiderio, aspirazione, brama. In questa accezione la nefes desidera cose che non sono propriamente commestibili come la terra, la vanità o i figli, dove comunque ricompare la struttura del desiderio e del godimento che rimanda all’idea della nefes in quanto organo del gusto.
Come espressione delle necessità vitali senza di cui l’uomo non può sopravvivere, la nefes finisce col coincidere con la vita per cui si afferma: "Il sangue, questa è la nefes."
Si compie l’identificazione tra sangue e vita che istituisce la prescrizione del divieto di consumare insieme alla carne anche il sangue, cioè la vita.
Nella Bibbia nefes non vuol dire anima ma semplicemente la vita dell’uomo, nella sua indigenza, nel suo desiderio, nella sua vulnerabilità ed eccitabilità emotiva.
L’Antico Testamento non parla mai di una nefes di Jahvè ma parla di una nefes degli animali, la cui vita, come quella degli uomini, è indigente e vulnerabile.
Allo stesso modo basar non significa corpo ma carne intesa come simbolo di caducità e impotenza dell’uomo rispetto alla potenza (ruah) di Dio.
Nell'ebraismo il basar non è la negatività della carne rispetto alla positività dell’anima come nel mondo greco post-platonico.
Per l’uomo dell’antico testamento la carne è positiva o negativa a seconda della sua fedeltà o infedeltà all’alleanza con Dio.
E’ questo il rapporto che decide il senso della carne e una conferma è il significato positivo che basar acquista nella promessa riportata da Ezechiele 11, 19: "Allontanerò dal loro corpo il cuore di pietra / e darò loro un cuore di basar."
Come nefes designava il carattere indigente e bisognoso della vita umana, così basar designa il carattere caduco e impotente che caratterizza questa vita quando diventa solo umana, perché rompe la sua alleanza con la potenza di Dio.
Nell’Antico Testamento le esperienze che fanno esplicito riferimento alla debolezza della carne non si riferiscono alla caducità di una componente umana, la carne appunto, ma alla debolezza dell’uomo che tutto intero si erge nella sua solitudine, rompendo ogni rapporto con Dio: "Maledetto l’uomo che confida negli uomini / e fa di basar il suo braccio. / Benedetto l’uomo che confida in Dio” (Ger., 17, 5-7).
La caducità e l’impotenza di basar sono quindi la caducità e l’impotenza dell’uomo che si isola da Dio per fidarsi delle sue sole forze. Questa separazione è la rottura dell’alleanza ed è l’essenza del peccato. L’idea di peccato comincia ad associarsi a quella della carne, non perché la carne è cattiva, ma perché la tradizione antico-testamentaria aveva fatto della carne il simbolo della pretesa umana all’autonomia e all’indipendenza da Dio.
In questo senso Paolo potrà dire: "Nella mia carne non abita il bene."
Il leb copre un arco di significato che va dal sentimento del cuore: "Che si rallegra in Jahvè" (Sam. 2, 1), alla ragione "intelligente che cerca la conoscenza" (Prov. 15, 14).
Alla volontà che si decide per Dio o contro Dio. La sede di questa razionalità è per l’uomo dell’Antico Testamento il cuore e per il greco antico il diaframma, a conferma del valore della corporeità presso tutte le culture primitive.
Ma qui occorre notare che il leb si prepara alla conoscenza, non perché sviluppa capacità razionali, ma perché si dispone all’ascolto: "Il leb intelligente e l’orecchio dei savi cercano il sapere."
Così dicono i Proverbi 18, 15 dove l’accostamento cuore-orecchio lascia intendere che per l’ebreo dell’Antico Testamento la conoscenza non è qualcosa che l’uomo può raggiungere con la ricerca razionale della sua mente, ma qualcosa che ottiene in dono se col cuore si dispone all’ascolto.
Ciò spiega perché il cuore e non la mente sia la sede della razionalità e perché la parola sia decisiva per le sorti del leb.
Come molti concetti dell’Antico Testamento dal significato specificatamente antropologico, anche il leb non è in sé buono ma lo diventa solo se si decide per Dio, al punto che: "Chi confida nel proprio leb è uno stolto / mentre colui che cammina nella sapienza sarà salvo" (Prov., 28, 26).
Nella decisione si esprime la volontà come conversione, come volgersi o rifiutarsi al Signore. Anche la decisione della volontà avviene nel leb come ci mostra lo stolto nel Salmo 14, 1: "Che disse nel suo leb: Dio non c’è."
Stolto qui significa che ha voltato le spalle alla Sapienza, che ha chiuso le orecchie alla sua Parola, che s’è fidato solo del suo leb, egli ha dimenticato che: "Il leb dell’uomo determina la sua vita, / ma è il Signore che dirige i suoi passi" (Prov., 16, 9).
La dipendenza dal Signore è così sentita che Ezechiele 11, 19 riconosce che l’uomo da solo non può rinnovare il suo leb e perciò a nome di Dio promette: "Toglierò dal loro petto un leb di pietra e darò loro un leb di carne."
Leb di pietra è il leb morto che avendo perso ogni ricettività rende tutte le altre membra incapaci di vivere. Il leb di carne è invece il leb vivo, disposto alla Sapienza e perciò capace di indurre ad un agire nuovo.
La concezione biblica dell’uomo pone una distanza e una differenza tra l’onnipotenza (ruah) di Dio e l’indigenza (nefes), la caducità (basar), l’incerto muoversi (leb) dell’uomo che solo da Dio può ottenere l’ordine della Sapienza e la forma della Volontà.
Per la tradizione biblica non c’è un’anima naturalmente buona e un corpo naturalmente cattivo, perché la cose visibili e corporee sono creazione divina allo stesso modo delle cose invisibili e, com'è scritto nella Genesi 1, 1-31: "Dio trova buono tutto ciò che crea, per cui il male non è nel corpo ma nella separazione dell’uomo da Dio, nella pretesa della nefes, del suo basar, del suo leb di vivere senza la ruah di Dio."