A proposito di Rosenfeld

  



"La relazione psicoterapeutica non dev'essere un'educata conversazione o una chiacchiera da salotto, ma deve avere il carattere dell'immediatezza" (Erich Fromm)


Il paziente risponde alle interpretazioni non solo considerandole strumenti che lo rendono cosciente del significato dei processi inconsci e coscienti, ma anche considerandole i riflessi dello stato della mente del terapeuta, in particolare della sua capacità di mantenere la calma e focalizzare gli aspetti centrali delle preoccupazioni e ansie del paziente. 

Il paziente inoltre acquisisce consapevolezza della psiche e della memoria del terapeuta attraverso il modo in cui questi tiene insieme importanti fattori esterni e interni e li amalgama al momento giusto. 

Lo stato psichico del terapeuta, la sua capacità di funzionare bene costituiscono un essenziale fattore terapeutico. 

Hanno un ruolo importante nei processi introiettivi, accrescono la capacità del paziente di stabilire relazioni oggettuali e rafforzano il suo Io nelle funzioni adattive, nella capacità di integrazione e di crescita psichica.

Quando interviene un'impasse si può spiegare l’accaduto come il verificarsi di resistenze del paziente al graduale processo di conoscenza a cui lo sta conducendo il terapeuta, ma è più spesso possibile spiegare il rallentamento o l’arresto della psicoterapia come l’effetto dell’incapacità del terapeuta di funzionare in modo terapeutico. 

Quello che Herbert Rosenfeld verificò, sia su di sé che sui terapeuti supervisionati, fu che tale incapacità deriva in gran parte dalla sospensione di una vigilanza sulla propria persona da parte del terapeuta che, interrompendo l’automonitoraggio di tutte le dinamiche personali, incrina la funzione di contenitore che queste svolgono delle problematiche proiettate dal paziente.

La capacità della mente del terapeuta di funzionare bene come contenitore, inclusa la capacità di coniugare passato e presente, mondo interno e mondo esterno (e includerei qui la capacità di cogliere lo scisso e il proiettato), questa capacità è un fattore terapeutico essenziale, tanto quanto la capacità di formulare interpretazioni.

Come aveva sottolineato anche Freud, il candidato psicoanalista deve affrontare un’analisi personale nella quale i suoi disturbi caratteriali, la sua struttura, i suoi problemi consci e inconsci devono essere individuati, fatti emergere e integrati nella personalità per aiutarlo a resistere al logoramento del lavoro analitico e a essere ricettivo alla moltitudine dei problemi posti dal paziente. 

L’analisi della struttura difensiva dell’analista deve includere le difese contro le prime angosce infantili, radicate profondamente nelle persone, che spesso nascondono angosce o problemi psicotici inconsci.

Le differenti posizioni che l’autore assunse con gli anni nei riguardi del valore della comprensione dell’analista circa la comunicazione del paziente, come processo chiave del trattamento degli psicotici e dei pazienti borderline, si possono evidenziare confrontando due passaggi presi da altrettanti casi clinici: il primo tratto da Stati psicotici (1965) e il secondo da Comunicazione e Interpretazione (1987). 

Nel primo caso, quello di un paziente psicotico trattato nel 1964, Rosenfeld si trovava in una impasse: il paziente rifiutava tutte le sue interpretazioni, opponeva una certa resistenza al trattamento e a volte riformulava a parole proprie cose dette dall’analista, cambiando dei particolari e spacciandole per idee personali. 

Rosenfeld al tempo, molto preso dall’analisi delle dinamiche narcisistiche portate in analisi, non seppe cogliere i suggerimenti del paziente, celati nelle sue riformulazioni e l’origine comunicativa dell’impasse analitica, e scrisse:

La principale sorgente di questa resistenza e di questo comportamento deriva dal diniego dell’invidia da parte del paziente narcisista, invidia che viene messa allo scoperto solo quando egli deve riconoscere la superiorità dell’analista come madre che nutre. 

Il paziente (…) gradatamente poté dare atto di quanto dovesse mantenersi vago e incerto sul fatto che fossi io a dargli l’analisi, perché un qualsiasi chiarimento circa il mio ruolo gli provocava sentimenti insopportabili di essere piccolo, affamato e umiliato fatto di cui risentiva profondamente anche quando io ero disponibile

Alcuni anni dopo, tra il 1975 e il 1985, facendo supervisione a una giovane collega, Rosenfeld ascoltò il racconto di un caso. 

All’inizio della seduta, che avvenne un mercoledì, l’analista ebbe l’impressione che la paziente, Sylvia, parlasse di uno stato psicotico di distanza, indeterminatezza e atemporalità che la preoccupava. 

Mise in relazione tale stato con il fine settimana, durante il quale naturalmente non l’avrebbe vista, al che Sylvia reagì dicendo: “E’ importante per le persone con cui stò”, spiegando che ella funzionava al livello del sentimento

L’analista disse che aveva avuto difficoltà a capire il significato di quella frase, ma di aver osservato con Sylvia che, secondo lei, alludeva al modo in cui era influenzata dalle sue idee sui sentimenti degli altri. La paziente rispose che era d’accordo, e doveva stare molto attenta quando gli altri si innervosivano. 

A questo punto l’analista fece una terza osservazione, ipotizzando che Sylvia temesse di essere abbandonata. Questa volta la paziente spiegò di aver suonato il campanello all’inizio della seduta, ma di aver dovuto aspettare che l’analista usasse il cicalino elettrico per farla entrare. 

Questa osservazione disorientò l’analista, ma successivamente Sylvia ribadì di provare un senso di irrealtà, osservando che, mentre aspettava alla porta, aveva cercato di guardare la targhetta col nome dell’analista sotto il campanello. Questa volta l’analista interpretò che Sylvia cercava di esprimere quanto avesse bisogno di prove della sua esistenza e le fece notare che si trovava lì con lei, in quel momento. 

A questa comunicazione la paziente rispose col silenzio. Successivamente parlò di una macchina che le aveva tagliato la strada, ma fu riluttante ad aggiungere altro. Le riflessioni di Rosenfeld sul caso furono:

Il problema che era emerso nel corso della seduta, diventando sempre più preoccupante, era che la paziente riteneva che l’analista non la capisse, non fosse in grado di affrontare i suoi sentimenti e perciò si assentasse non solo durante i fine settimana ma anche durante le sedute. 

In primo luogo, Sylvia reagì all’interpretazione riguardante i week-end correggendo con delicatezza l’analista: il problema non riguardava i fine settimana, ma la situazione contingente, ‘le persone con cui stò’. 

Dato che questo messaggio non venne recepito, cominciò a spaventarsi, poiché credeva di aver ‘innervosito’ l’analista. Poi, preoccupandosi ulteriormente, fece uso di un efficace linguaggio simbolico per far capire come avvertisse che l’analista non era in contatto con lei, perché lei non era riuscita a far suonare il campanello nella sua mente. 

Preoccupata dal tempo che occorreva perché il campanello risvegliasse l’analista, ripeté di sentirsi irreale, il che implicava che si sentiva confusa circa il luogo in cui era e la persona cui stava parlando, facendo nel contempo riferimento alla targhetta col nome. Infine, a suo modo esasperata, tentò ancora di comunicare quel che stava accadendo, descrivendo come l’analista (macchina) stesse pericolosamente tagliandole la strada (…) 

L’aspetto degno di nota è la tenacia con cui la paziente continua a tentare di comunicare all’analista le sue idee su quel che sta accadendo. Incapace di aiutarla a capire la sua angoscia e a esplorarne il fondamento, l’analista perde l’opportunità terapeutica, diventa a sua volta sempre più ansiosa e in effetti accresce le angosce della paziente sulla propria pericolosità.”