Solo con la nascita del pensiero filosofico l'uomo
impara a considerare la molteplicità delle cose e dei loro vari aspetti,
nell'ottica dell'unità concettuale. Prima egli procedeva in senso opposto,
ossia coglieva ed esprimeva le cose e i loro aspetti soprattutto nella
dimensione della molteplicità, con attenzione particolare alle numerose e
differenti caratteristiche.
Su questa prospettiva è utile porsi per comprendere
il modo complesso con cui, nei poemi omerici, viene rappresentato quello che
oggi intendiamo per corpo umano.
Perché non da vivo, ma solo da morto, l'uomo viene
rappresentato con un termine unitario, ossia con il termine corpo, nel
ristretto senso di cadavere?
Ciò è possibile in un pensiero pre-filosofico, dove
nel corpo morto, cadavere, scompaiono le molteplici funzioni
differenziate dei vari organi, e quindi queste si identificano nel non essere
più ciò che erano, irrigidendosi e confondendosi nella immobilità della morte.
Tutte le membra, tutti gli organi e tutte le funzioni fisiche diventano uguali
nel non essere più ciò che erano, e quindi risultano rappresentabili
unitariamente con il termine soma, corpo esanime, salma.
Nell'uomo vivo si riscontra una molteplicità di organi
con le loro differenziate attività e funzioni vitali. Omero tratta in maniera
dettagliata ciascuno di questi organi e funzioni con immagini assai ricche,
senza mai giungere a una rappresentazione sintetica. Omero non rappresenta il
corpo dell'uomo come l'unità della molteplicità, ossia come una identità che si
esplica nella differenziazione di organi e funzioni di vario genere. Per
esprimere in qualche modo l'unità corporea, usa termini al plurale, ossia melea
o gyia, cioè membra.
Per la cultura moderna, che si basa sul processo del pensare
come unificare, ereditata dai filosofi greci pre-platonici, non è facile
entrare nell'ottica mitico-poetica di Omero e comprenderne il linguaggio
polivalente.
Un esempio di questo cambiamento, nella visione del
corpo umano, può venire dal campo della rappresentazione artistica. L'arte dei
Greci, che si è diffusa a partire dai secoli VI-V a. C. e che si è imposta come
modello dell'arte occidentale, rappresenta la figura umana come una perfetta
unità: le varie parti del corpo sono raffigurate non solo in adeguato rapporto
le une con le altre, ma anche in funzione di un preciso nesso con “l'intero”,
che costituisce una sorta di regola che governa e armonizza le parti stesse.
Questo non si verifica nell'arte arcaica,
come ci è pervenuto dalle rappresentazioni del corpo umano fatte su vasi
e coppe. Il corpo viene raffigurato soprattutto nelle parti in cui si articola,
ciascuna delle quali viene ben evidenziata nelle sue caratteristiche
specifiche, e viene così differenziata dalle altre (questo tipo di disegno è
frequente anche nei bambini). Più che in funzione del nesso strutturale con
l'organismo nella sua unità, ciascuna parte viene raffigurata in ciò che essa è
peculiare.
Un altro esempio del passaggio dal molteplice
all’unitario, potrebbe essere quello della costruzione linguistica. Gerhard
Krahmer (1931) ha cercato di caratterizzare la differenza essenziale fra la
rappresentazione “classica” della figura umana (che qualifica come
organicistica, in quanto l'insieme dell'organismo funge come regola delle
parti) e quella “arcaica” (che qualifica come geometrica o cubista) mediante le
metafore linguistiche della “ipotassi” e della “paratassi”.
Nel procedimento sintattico della ipotassi, il
discorso procede connettendo a una proposizione principale altre proposizioni
da essa dipendenti e subordinate; nel procedimento sintattico della paratassi,
il discorso procede con una serie di proposizioni coordinate, senza il nesso
strutturale e funzionale di subordinazione e dipendenza.
La ipotassi e la paratassi implicano modi di pensare,
esprimersi, assai diversi fra loro: la prima, con la subordinazione, implica
precisi nessi logici; la seconda, con la coordinazione, implica
giustapposizione e successione, senza esplicitazione dei nessi logici che
connettono le parti.
“Nelle rappresentazioni pittoriche paratattiche, in
cui predominano le articolazioni degli organi delle figure umane, vengono
evidenziati i particolari, connessi tra loro, che l'insieme in quanto tale.
Emerge in esse un senso di movimento, che conferisce loro un carattere
narrativo. In particolare i movimenti e le azioni dipendono, più che dall'unità
dell'organismo, dalle parti stesse nelle loro dinamiche forme geometriche e
stereometriche” (Reale
G., Corpo, anima e salute, 1999)
In epoca classica, il desiderio di conoscenza sembra
essere la spinta verso una nuova forma di linguaggio, messa in atto dal
pensiero filosofico e metafisico, con l'avvento dell'ontologia e della
metafisica dell'Uno. Il condizionamento temporale del linguaggio omerico ben
rappresenta i limiti entro i quali i membri di una cultura orale hanno la
possibilità di esprimersi. Il discorso omerico non poteva che essere di forma
paratattica e presentarsi in forma narrativa, dispiegarsi in successione di
eventi scanditi dal tempo e quindi in rapporto col tempo passato, presente e
futuro. Platone nella Repubblica coglie, nel carattere narrativo, il
limite invalicabile del discorso mitico-poetico:
“Non ti pare che tutto quello che i creatori di miti e
i poeti raccontano si riduca a una esposizione di fatti passati, presenti e
futuri?”
(Platone)
Platone e i filosofi pre-platonici, chiedono che il
discorso del “divenire”, ossia delle infinite azioni ed eventi, venga sostituito
dal discorso de “l'essere”, ossia degli enunciati che siano, con termine
moderno, “analitici”, liberi dal condizionamento del tempo.
“Questo è l'obiettivo di Platone, che egli presenta
nel settimo libro della Repubblica, dove le varie scienze sono momenti essenziali nella
formazione del dialettico, quindi non discipline valide in sé, bensì per
preparare la mente alla problematica dell'essere e dell'unità, ossia portare le
menti dal mondo d'immagini dell'epos al mondo dei concetti astratti, al
mondo delle idee, e quindi dal vocabolario e dalla sintassi del divenire
e del molteplice alla sintassi dell'essere e dell'uno” (Reale, 1999)
Dall'esperienza molteplice delle varie funzioni
del corpo si giunge, in epoca classica, all'idea del corpo, unificante e
metafisica. Il vertice teoretico di Platone è proprio l'unificazione del
molteplice, attraverso la riduzione “sinottica” (sguardo d'insieme) della
molteplicità all'unità dell'Idea. Ciascuna idea è un'unità e, in quanto tale,
spiega la molteplicità delle cose sensibili che di essa partecipano,
costituendo in tal modo una “molteplicità unificata”. Pertanto, la vera
conoscenza consiste nel saper unificare la molteplicità in una visione
d'insieme nell'idea da cui dipende.
L'idea del corpo, che nasce sotto questa spinta
culturale, si modella sulla visione d'insieme a cui si offre. Il corpo diviene
“essere” e “identità” nella presentazione della sua “forma”, di cui compone
l'etimologia. Questo nuovo tipo di esperienza del mondo – riflessiva,
scientifica, tecnologica, teologica, analitica – subordina la molteplicità
corporea ad una funzione suprema che è quella della rappresentazione
dell'essere, all'idea oggettiva di sé, sacrificando, in nome della conoscenza,
l'esperienza diretta della differenza. La conoscenza è ricerca dei nessi tra
manifestazioni differenti di un essere che si percepisce come unico, che lo si
immagina tale. L’idea del corpo ha, in più di un’occasione, distratto l’uomo
dall’esperienza del corpo.
L’unificazione dell’esperienza umana, in seno a
“l’idea del corpo”, inaugurata da Platone, pose un’importante questione,
alimentata dalla presa di distanza dell’uomo dalla sua esperienza sensibile e
corporea, quella del mistero del corpo. Questione che col passare dei
secoli, si arricchì della visione religiosa e teologica.