"Credo di sapere cosa si prova ad essere Dio"
(Pablo Picasso)
"Sogno di dipingere e poi dipingo il mio sogno"
(Vincent Van Gogh)
Per Freud la formazione del simbolo riguarda i sogni, intesi come realizzazione simbolica dei desideri repressi che, attraverso i meccanismi di condensazione, proiezione, identificazione, esprimono i desideri per mezzo di un procedimento di censura.
Per Freud il simbolo non è mai univoco ma ambivalente a causa della censura a cui è sottoposto.
Per Jung il simbolo si situa in una presa di coscienza delle realtà ancestrali contenute nell’anima umana (archetipi dell’inconscio collettivo).
"Una parola o un’immagine è simbolica quando implica qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato. Essa possiede un aspetto più ampio, inconscio, che non è mai definito con precisione o compiutamente spiegato.
Né si può sperare di definirlo o spiegarlo. Quando la mente esplora il simbolo, essa viene portata a contatto con idee che stanno al di là delle capacità razionali."
(Jung C. G., Psicologia e patologia dei fenomeni occulti, 1902)
Anche secondo Jung l’uomo, in maniera inconscia e spontanea, produce simboli durante il sogno, tanto che quest’ultimo è da lui considerato come la fonte più frequente e universalmente accessibile per lo studio delle capacità di simbolizzazione dell’uomo: Jung però sottolinea che l’analisi del sogno non deve esser portata avanti con la tecnica delle libere associazioni introdotta da Freud, ma concentrandosi sul sogno stesso, utilizzando solo il materiale che è chiaramente e visibilmente disponibile.
Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, hanno guardato all’espressione artistica nel corso dei secoli e investigato le produzioni e le biografie degli stessi autori dell’opera d’arte per cercare riscontro alle loro osservazioni cliniche psicologiche e psicopatologiche.
Entrambi riconoscevano che le espressioni creative artistiche contengono comunicazioni in modalità intuitiva, metaforica e simbolica simili al sogno, e ciò indipendentemente dal grado di cultura o di intelligenza o di professionalità artistica.
Freud, collezionista di reperti archeologici di arte primitiva, guardava all’espressione artistica popolare, indipendentemente dai valori estetici, per ritrovarvi espressioni dei conflitti inconsci narrati con metafore plastiche o poetiche.
Jung, allievo e contemporaneo di Freud, propose una lettura psicologica e psicoanalitica dei fenomeni artistici prevalentemente organizzata intorno all’ipotesi dell’inconscio collettivo e dei nuclei cosiddetti mitopoietici, detti archetipi nelle loro rappresentazioni essenziali.
Egli approfondì l’esame delle opere artistiche oltrepassando l’assunto teorico fondante la psicoanalisi, cioè il conflitto inconscio individuale, e riconoscendo alle opere d’arte l’espressione di un inconscio collettivo, narrato con elementi primordiali ai quali attingono la cultura popolare e religiosa: miti e iconografie ricorrono trasversalmente in tutte le culture e in tutti i tempi indipendentemente da memorie tramandate.
Apprendiamo da Jung che gli archetipi sono quelle nozioni universali e primigenie, innate e predeterminate che ognuno possiede e conserva dentro di sé.
"Ci troviamo davanti a tipi arcaici o ancora meglio primigeni, cioè immagini comuni presenti fin dai tempi remoti". (Jung C. G., Libido, simboli e trasformazione, 1912)
Nella nostra psiche esistono forme determinate presenti da sempre, contraddistinte da un carattere di universalità e atemporalità. Gli archetipi sono il contenuto dell’inconscio collettivo.
"Un certo strato per così dire superficiale dell’inconscio è senza dubbio personale: noi lo chiamiamo inconscio personale.
Esso poggia però sopra uno strato più profondo che non deriva da esperienze e acquisizioni personali, e che è innato. Questo strato più profondo è il cosiddetto inconscio collettivo."
(Jung C. G., Importanza dell’inconscio in psicopatologia, 1914)
L’espressione archetipo, così com’è stata definita da Jung, era stata utilizzata già da vari studiosi e si potrebbe paragonare al concetto di représentations collectives che Lévy-Bruhl usò per indicare le figure simboliche delle primitive visioni del mondo.
Prima della psicoanalisi alcuni psichiatri fenomenologici avevano aperto un capitolo d’indagine sull’espressione figurativa dei pazienti e le possibili analogie con le opere d’arte.
Emil Kraepelin raccolse oggetti, disegni e scritti dei pazienti psichiatrici e parlò di arte patologica intendendo che, nell’opera creativa di un folle, si può procedere a un analisi dei sintomi manifesti.
Una realtà che poi ha avuto sviluppo con la tecnica dei test proiettivi nella pratica diagnostica. Karl Jaspers, che già guardava con interesse alle novità presentate dalla psicoanalisi, introdusse l’ipotesi che nell’opera creativa si può cogliere l’unità dell’espressione umana.
In questo senso l'arte, la follia e la formazione del sintomo nevrotico svelano l'universalità dell'accadere psichico individuale e il suo potente valore di rivelazione.